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Lavoro e dignità

Sul Corriere della Sera del 7 giugno 2008 il giornalista Beppe Severgnini scrive che un ragazzo italiano laureato in scienze della comunicazione non accetterebbe mai un lavoro da spazzacamino. La cosa viene detta con un palese sentimento di commiserazione, in quanto Severgnini lascia intendere che il ragazzo farebbe bene ad accettare simili lavori, visto che “non c’è più molto da comunicare” e si rischia di “arrivare a quarant’anni tra contrattini e collaborazioni”.

Vorrei spiegare a Severgnini un paio di cose.

Anzitutto, non è vero che c’è poco da comunicare, visto che si tratta di una attività vecchia quanto l’uomo su questa terra e i mezzi di comunicazione si evolvono con tale rapidità da coinvolgere un numero sempre crescente di soggetti coinvolti. Lui stesso è un comunicatore, e queste cose dovrebbe saperle. Tra l’altro, dovrebbe pure sapere che molti comunicatori di oggi farebbero bene a starsene un po’ zitti, ogni tanto, almeno a giudicare dalle stronzate che dicono.

Secondo, se qualche giovane laureato in comunicazione fatica a trovare un cantuccio presso una redazione o un ufficio dove possa occuparsi di affari inerenti alle sue qualifiche, è colpa di gente ultraraccomandata e politicamente sponsorizzata, possibilmente coi capelli bianchi, che non lascia spazio a giovani più freschi e capaci.

Terzo, i contrattini e le collaborazioni sono la vergogna dell’Italia, che non si preoccupa della stabilità e del futuro dei giovani. Paghe da fame, orari di lavoro elastici (ma sempre a favore del datore), niente ammortamenti per una futura pensione: perché Severgnini, che scrive libri, articoli e tiene in mano il microfono davanti a una telecamera, non parla più ampiamente di queste cose? Perché non ci informa sul precariato con dovizia di particolari anziché parlarci di spazzacamini e della nobile umiltà di chi pratica questa professione?

Quarto, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Mi pare che una sessantina d’anni fa questo fosse chiaro, tanto da andarlo a scrivere nel primo articolo della Costituzione.
Chi ha tradito lo spirito della Costituzione italiana? Con quali leggi? Come si permette, qualcuno, di affermare che un laureato farebbe meglio a improvvisare una carriera da spazzacamino? Se uno ha studiato, è bene che segua le proprie aspirazioni e svolga un lavoro attinente alle materie su cui si è formato. E’ un diritto sacrosanto di ogni cittadino, trovare un lavoro che lo soddisfi. Se questo non è possibile, ciò è dovuto a chi ha trasformato l’Italia in una nazione sottosviluppata, nella quale non si va avanti per meriti e persino le attività che richiedono cultura, intelligenza, istruzione e preparazione tecnica vengono “assegnate” dai potenti in base alle amicizie.

Ecco come si è ridotta l’Italia: chirurghi politicanti, primari ospedalieri con la tessera di partito, assessori e sindaci con quote e azioni di cliniche private, giornalisti obbedienti, intellettuali di basso rango che predicano lo status quo (l’intellettuale dovrebbe invece porre nuovi problemi, aprire discussioni), scrittori adulatori del potere, imprenditori che sfruttano i dipendenti col beneplacito dei governi, che a loro volta sono fatti da imprenditori, editorialisti che auspicano il ritorno ai mestieri di una volta.

Solo su una cosa Severgnini ci ha visto bene: personalmente, anche se fossi laureato in qualche altra cosa e non in scienze della comunicazione, riterrei offensiva la soluzione di fare lo spazzacamino, e spero che la pensino così tutti i laureati italiani. Non si tratta, come tenterà qualche malizioso, di screditare la figura dello spazzacamino, che come uomo vale quanto un medico. Qui si tratta di tenere alta la considerazione che si ha di se stessi, senza dover accettare per forza dei lavori che sono al di sotto della propria formazione. Gente come Severgnini, gente come il signor Bagli che gli ha scritto una lettera melensa, e gente come i nostri politici che gridano al bamboccione ed esortano a fare lavori manuali anche con la laurea, non fanno altro che attentare alla dignità di chi ha studiato, spesso con sacrifici economici ingenti da parte della famiglia, laddove lo Stato è latitante e non finanzia né gli studi né la ricerca dei suoi giovani.

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